Cà Granda e laghetto di Santo Stefano
“Esso spedale nutre giornalmente 1.600 persone oltre gli ammalati, giacché‚ stanno ivi contabili, scrivani, barbieri, sarti, calzolai, avendo ciascheduno lavoro proprio; dimodoché il contabile novera ogni anno allo spedaliere 30.000 ducati milanesi”
Arnaldo di Harff (fine XV secolo)
Fu l’arcivescovo Rampini, nel 1447, a deliberare un’unica amministrazione, sotto tutela vescovile, per tutti gli ospedali milanesi; e Francesco Sforza a porre la prima pietra, con tanto di iscrizione in latino, nell’aprile del 1456, della «Ca’ Granda». Il terreno era stato offerto dallo Sforza stesso e dalla moglie Bianca Maria Visconti. Venne chiamato a disegnare il monumentale edificio lo scultore e architetto Antonio Averulino da Firenze, detto il Filarete («amante della virtù»), allievo del Ghiberti. Una Bolla papale dell’anno successivo istituì quel solenne Giubileo – con relativa indulgenza plenaria – che fu poi dal popolo ribattezzato Festa del Perdono.
Il Filarete, con poco più di nove anni di lavoro e con un progetto di massima mai esattamente disegnato su carta, ma teorizzato e commentato nelle pagine del suo Trattato di architettura, cui non furono estranei i consigli dello stesso Sforza, raccomandò con successo alla posterità il proprio nome come autore della «Ca’ Granda». In effetti, l’originaria impostazione strutturale e ideologica dell’edificio continuò a improntare i lavori secondo lo schema dell’Averulino anche nelle successive fasi, sino all’ala più recente. Sotto la guida diretta del Filarete vennero su la grande crociera centrale della zona verso San Nazaro, una parte dei cortiletti in quell’area e il giro della decorazione esterna sino all’altezza del primo cornicione.
Il lombardo Guiniforte Solari, che lo sostituì nel 1465 alla direzione dei lavori ormai ben impostati, portò avanti diligentemente l’opera. Dopo di lui, il nome più illustre è quello dell’Amadeo. Verso il 1473 l’edificio cominciò a entrare in funzione, con i suoi malati, i suoi trovatelli, la sua gran corte di faccendieri d’ogni genere.
Certo è che il Filarete aveva concepito le cose in grande, per il lungo e per il largo, e, pur badando al principio del cerchio e del quadrato almeno quanto alle funzioni ospedaliere del suo edificio, molti particolari aveva studiato con criteri igienici e pratici, che per il tempo suo erano senz’altro d’avanguardia. Intanto, l’igiene dello spirito: la chiesa era posta al centro delle quattro infermerie intersecantesi a croce, sì da trovarsi in vista d’ogni moribondo; e poi l’igiene del corpo: magazzini e servizi nel basamento, in modo che fossero separati dai degenti, installazioni igieniche e lavanderia a portata dell’acqua del Naviglio, soffitti altissimi (sin quasi dieci metri dal suolo) e ampi finestroni per una migliore circolazione dell’aria.
Inoltre, l’ospedale filaretiano-sforzesco era dotato di scuole mediche interne, sia pur rudimentali, e d’una biblioteca specializzata.
Chi, dopo le devastazioni delle bombe, nel dopoguerra ha il compito di riattare l’intero complesso per un nuovo scopo – la sede per l’Università statale – si trova letteralmente spianato, fra tante rovine, il terreno.
Si deve principalmente a Liliana Grassi se Milano ha ritrovato una delle più singolari e suggestive testimonianze d’arte in Lombardia – ma si potrebbe dire in Europa – a contatto e in simbiosi con le necessità delle sue complesse funzioni operative. L’ala Macchio – quella più lontana da San Nazaro – dietro lo schermo sottile della facciata originaria d’ultimo Settecento parla il linguaggio stilistico e strutturale delle generazioni d’oggi con l’uso di vetro, alluminio, cemento, acciaio; ma anche qui è rispettato lo schema filaretiano nell’impianto a croce e, per fare ciò col minor spreco possibile di spazio, si è collocata l’aula magna all’interno d’uno dei cortiletti e si è utilizzato l’innesto delle crociere per lo scalone di raccordo, grazie a un’ardita soluzione d’ingegneria a strutture sospese che merita una visita. Quanto al cortile d’onore cui si accede dal portale del Richini, un pazientissimo lavoro di riassetto a puzzle, compiuto negli anni Cinquanta sui frammenti sparpagliati e via via incastrati con il minimo di zeppe, ne ha permesso la ricostruzione fedele e autentica nei suoi elementi originari in pietra d’Angera bianca, rosa e ocra.
L’Università degli Studi di Milano fu inaugurata nel dicembre del 1924 ed ebbe come suo primo rettore il ginecologo Luigi Mangiagalli, che era anche il sindaco della città. Nella sede della Cà Granda trovano oggi spazio buona parte dei dipartimenti umanistici.
Il laghetto di Santo Stefano”
Da via Festa del Perdono si può voltare per via Laghetto: un tempo vi era un approdo per i barconi del Naviglio: era il punto di arrivo dei marmi di Candoglia che servivano per erigere il Duomo (sino a che il laghetto restò in funzione, 1857, collegato con la cerchia interna) . Sulla parete d’una delle vecchie case (interamente ristrutturate) si noterà una specie di armadione: protegge un’immagine votiva dipinta nel 1630 che gli scaricatori dei marmi dedicarono a Maria in tempo di pestilenza, scaricatori e allo stesso tempo carbonai, scuriti dal carbone, donde il nome del dipinto, La Madonna dei tencitt.
vai ai Navigli che non ci sono più